Cultura popolare romana: dal dialetto alla musica popolare. Scopriamo il romanesco, la cadenza linguistica utilizzata tutt’ora e gli stornelli romani
Il dialetto locale a Roma è il romanesco.
Nasce nel medioevo con analogie ai dialetti del sud, ma durante il Rinascimento subisce l’influsso culturale del fiorentino facendolo somigliare al dialetto toscano. Il romanesco si distingue spesso per tipiche sfumature alquanto grezze e sgarbate caratterizzate comunque da evidente bonarietà.
Negli anni però ha subito un’evoluzione grazie a poeti e scrittori famosi come Giuseppe Gioachino Belli nell’Ottocento con i “Sonetti Romaneschi” e Trilussa con “Evviva Trastevere” all’inizio del Novecento.
Tra i maggiori rappresentanti del dialetto romanesco sono da menzionare famosi attori che hanno dato un forte contributo nel cinema e nel teatro: Aldo Fabrizi, Alberto Sordi, Nino Manfredi, Gina Lollobrigida, Anna Magnani, Gabriella Ferri, sul finire del ‘900 e Gigi Proietti, Enrico Montesano e Carlo Verdone negli ultimi anni.
Il l romanesco era una ” lingua vernacola ” (lingua vernacolare), nel senso che per secoli non ha avuto una forma scritta ma è stata parlata solo dalla popolazione. Ricco di espressioni molto colorite, il romanesco è usato in modo confidenziale dai nativi di Roma, in un misto con l’italiano.
La lingua di Roma durante il Rinascimento muta decisamente per effetto dei numerosi artisti di spicco toscani con al seguito artigiani e maestranze varie che confluiscono nella città dei papi.
Il loro contatto col popolo ebbe un impatto sul dialetto, che perdeva così la somiglianza coi dialetti meridionali, guadagnandone invece col toscano. Inizia così il passaggio al romanesco moderno molto vicino a quello attuale. Ma è un processo lungo che non si esaurisce alla fine del XVI secolo.
La commedia “Le stravaganze d’amore“, di Cristoforo Castelletti (1581) è la prima opera in cui l’autore usa il dialetto volutamente come espressione del volgo contrapponendosi all’italiano.
“Il maggio romanesco” di Camillo Peresio e “Meo Patacca” di Giuseppe Berneri sono i due poemi eroicomici nel Seicento che completano la trasformazione. Sul finire del secolo il dialetto diventa addirittura lingua letteraria, venendo usato per l’intera composizione.
La critica dei puristi polemizzò sugli autori in quanto le opere erano in realtà un incrocio tra la lingua italiana e il vernacolo parlato dalla plebe. Il dialetto, quindi, nel Settecento torna a essere l’idioma del volgo, ma rifiutato dai letterati.
Voler tratteggiare col vernacolo romanesco delle figure caricaturali è una tra le principali caratteristiche dell’espressione del dialetto romano, privo di inibizioni linguistiche.
Nell’ambito dialettale è esclusa l’autocensura che tende ad inzuccherare espressioni comunemente ritenute “volgari” o “sconce”. Un battibecco, o un insulto arrabbiato non crea risentimento, nessuna tensione anche se vola qualche esternazione molto colorita di varia natura, una parolaccia.
Molto utilizzata dai romani, la parolaccia, è parte integrante del lessico locale, a causa del frequente uso nel dialetto di parole scurrili tipiche della parlata romanesca.
Le caratteristiche principali del romanesco sono:
Il romanesco è uno dei dialetti più creativi della penisola italiana con le sue espressioni stravaganti, ma decisamente comunicative, non a caso nel quartiere Trastevere c’è un ristorante con un nome particolare “La Parolaccia” dove il turpiloquio vi accoglie all’entrata del locale.
Le pasquinate erano un particolare sistema di protesta della gente per esternare la loro disapprovazione contro l’autorità del Papa, che, nel XVI secolo, era diventata intollerabile per il popolo romano che anelava ad una maggiore libertà.
L’idea era di pubblicare di nascosto le loro lagnanze, evitando il rischio di essere arrestati, iniziando a scrivere versi satirici e di scherno su alcune statue cosiddette “parlanti“. Tra queste la più rinomata è a pochi passi da Piazza Navona, il “Pasquino”. La statua è ciò che rimane di una delle sculture del III secolo a.C. che decoravano lo Stadio di Domiziano (oggi Piazza Navona).
Personaggi pubblici o prelati più in vista, venivano scherniti con versi scritti di notte da poeti e pensatori sui cartelli appesi al collo delle statue negli angoli più frequentati della città. Tutti potevano leggere il giorno dopo le critiche e le invettive rivolte ai potenti personaggi sbellicandosi dal ridere, prima che i tutori dell’ordine li rimuovessero.
Questi attacchi provocatoti furono chiamate “Pasquinate”, dal nome della statua che più delle altre rendeva pubblico il malcontento del popolo per la corruzione e gli abusi dei potenti. Delle Pasquinate si servirono persino i pontefici per le loro elezione, un sotterfugio con cui speravano di procurarsi il favore del popolo.
Alcuni papi provarono ad eliminare la statua promulgando leggi ma senza successo. Addirittura nel 1728 Benedetto XIII emanò un editto col quale infliggeva la pena di morte, confisca ed infamia, a chiunque fosse colto a collocare “pasquinate” sulla statua.
Le canzoni popolari romane si chiamano stornelli, dall’uccello “storno” e che esprime proprio un canto che rimbalza di bocca in bocca. Negli “stornelli romani” accompagnati sempre dalla chitarra, si respirare l’essenza della cultura folcloristica della città.
Per apprezzare i “figli della lupa” è d’obbligo ascoltare la melodia delle serenate romantiche o le canzoni satiriche cantate a squarciagola nelle locande più tradizionali, gli autentici “stornelli” romani.
Gli stornelli cantati magari sulle poesie del celebre poeta romano Trilussa, che suscitano il calore e l’effervescente festosità che solo il popolo romano sa dare. Un’atmosfera spensierata e confidenziale che rispecchia il carattere dei romani, mattacchioni e compagnoni, che sanno scherzare anche su vicende drammatiche.
Una drammaticità trasmessa dai detenuti nel carcere di Regina Coeli, dentro Trastevere, che facevano circolare una loro notizia dai cantastorie di strada da vicolo in vicolo, così da essere recapitata alle famiglie e agli amici; questo era il solo modo di comunicare con l’esterno, cantare lo stornello.
L’improvvisazione è la caratteristica principale degli stornelli romani, sempre con tono allegro e canzonatorio su un argomento ora amoroso o come sfottò tra amici o rivali. Dai versi appesi alla statua di “Pasquino“, vicino Piazza Navona, si prendeva spunto per criticare o attaccare chiunque, personaggi famosi o cardinali e papi compresi.
Molte sono le canzoni rimaste poi nella tradizione popolare tramandando la spensieratezza e la fierezza romanesca. La voce che il popolo ha amato di più, la più famosa è quella di Claudio Villa, che citava sempre il quartiere di Trastevere e i trasteverini, con i suoi discepoli Lando Fiorini e Gabriella Ferri, intensa e drammatica grande interprete.
“Na Gita ai Castelli” , “Tanto pe campà” “Er Barcarolo” “Fatece largo”, sono i brani più noti dove si raccontano con estro momenti di vita popolare, le storie gioiose e drammatiche dei rioni-quartieri o le avventure amorose e i tanti corteggiamenti estivi come in “Roma nun fa la stupida stasera”.
Cultura popolare: recensioni e commenti
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